È sempre periodo di esami, per tutti: c’è chi prepara la maturità, chi il concorso per la scuola; da qualche parte qualcuno sta mettendosi in ghingheri per il suo primo colloquio di lavoro, altrove un universitario in crisi sta strappando gli appunti del corso e un professore si prepara per sostenere la sudata abilitazione. Gli esami non finiscono mai, diceva quello: aveva ragione.
E da che mondo è mondo, esame vuol dire ansia. Chi poca chi tanta, ansia. Così, mentre ieri lavavo i piatti e ripassavo D’Annunzio (sic!), mi è venuto in mente, poi scritto di getto, questo stupidissimo esercizio di stile che unisce Venditti, la linguistica italiana, l’Oulipo e pure un po’ di Campanile, Bierce e Benni, perché se non ci metto Benni non son contento. A chi è rivolto? A voi maturandi che scorrete la home in attesa di presentarvi davanti alla commissione, a te universitario che stai piangendo davanti alla terza orazione di Cicerone (st’omo è dovunque), a me che preparo un concorsone-one, a chiunque voglia farsi due risate (stupide) mentre ancora una volta sfoglia con le dita le pagine rimastegli da studiare, contando, come sempre è stato e sempre sarà, le figure. Buona lettura e buon esame.
La regola, per chi se ne intende, è: coppie minime.
Canzone di Venditti da ascoltarsi obbligatoriamente la notte prima dell’esame, meglio se di maturità; che poi abbiamo capito tutti che è una bella metafora per coprire uno scippo in un negozio di strumenti musicali ad opera di quattro vandali: passino le chitarre ma come ve lo spiegate altrimenti il pianoforte sulle spalle? E al poretto che se lo è accollato, poi la maturità gliel’hanno data ad honorem con la prognosi di 30 giorni al San Salvatore per fratture multiple? E vi immaginate avere come padre Dante Alighieri e fratello Ludovico Ariosto? E ci credo che poi Claudia tremava: novella Beatrice tisica con gli occhiali, così si sposa pure un avvocato! Per i più nostalgici è consigliato l’ascolto assieme a “I migliori anni della nostra vita”, masterpiece di Severus Piton.
Signori, benvenuti all’Uni Club.
Prima regola dell’Uni Club: non parlate mai dell’Uni Club.
Seconda regola dell’Uni Club: non dovete parlare mai dell’Uni Club.
Terza regola dell’Uni Club: se qualcuno grida basta, si accascia, è spompato, fine dell’esame.
Quarta regola: si combatte solo due CFU alla volta.
Quinta regola: un esame alla volta, ragazzi.
Sesta regola: niente dispense, niente fotocopie.
Settima regola: gli esami durano fino a che il professore non grida 18.
Ottava ed ultima regola: se questa è la vostra prima sera all’Uni Club... dovete rimandare alla sessione di settembre!
Si commenta da solo, per pubblico pudore…
Ho letto, dandoci un occhio, almeno un milione di pagine
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni nota.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi suda
che la realtà sia quella che si studia
Beh speriamo di no.
Tutti dicevano che Ludwig fosse un gran discolaccio, sempre disattento in classe. In realtà non ascoltava mai le parole del professore perché era impegnato ad ascoltare quelle delle sue sinfonie mentre le componeva nella testa. Perché al piccolo Ludwig van Beethoven le note parlavano. Ma a furia di ascoltare soltanto le sinfonie, rimase ignorante come un ciuco. Riuscì a scamparla fino alla quinta con i crediti extra in musica, ma quando si rese conto che per l’esame di maturità del giorno successivo non sapeva assolutamente nulla, si inventò un piano, nel vero senso del termine. Prese il suo pianoforte e iniziò a suonarlo a perdidita, fino allo sfinimento. Le note impazzavano per la stanza e rimbombavano contro le pareti (i genitori, poveri diavoli, avevano fatto insonorizzare dopo la prima media); era un pandemonio di cacofoniche essenze musicali, un miscuglio indigesto di acuti e gravi: in breve, chiasso infernale. Andò avanti tutta la notte. Quando albeggiò, Ludwig staccò di colpo le mani dal piano(forte): la quiete dopo la tempesta, senza augelli far festa (erano scappati tutti). Ma nella sua testa il chiasso non cessava: si era ridotto però ad un silenzio assordante, nel vero senso del termine, un fischio continuò che gli impediva di sentire tutto il resto. Il piano(senza forte) aveva funzionato: qualche ora dopo si presentò davanti alla commissione e prima che il prof. di lettere gli potesse chiedere Pirandello (che non era ancora nato, ma lui non lo sapeva e lo chiedeva comunque), Ludwig indicò con le dita della destra l’orecchio, ruotando pollice e indice tesi della sinistra con aria maliziosa e soddisfatta.
Fu promosso col 60. E con la 104.
Condizione di impossibilità, dal momento che “Notte” non rima con “Esami”; un po’ come “fegato”: trovate una rima in italiano per “fegato”, avete tutto il tempo che volete…
Sapete che anche Catilina dovette sostenere l’esame di maturità? E indovinate chi era il presidente di commissione? Esatto, lui, l’irreprensibile pater patriae, il fustigatore di governatori siciliani, il terrore del papiro breve e della frase corta: Marco Tullio Cicerone, con al fianco Sallustio segretario. Al che Catilina si disse: “E ‘sti cazzi?” e piuttosto che presentarsi al banco radunò il resto della classe e fuggì nell’hinterland romano per preparare l’occupazione della presidenza. Il resto è storia nota.
Fastidiosissima malattia che colpisce l’esaminando costringendolo all’immobilità e a rimandare l’esame “alla prossima sessione”. Si sospetta che molti ne soffrano cronicamente.
Le balle; non aggiungo altro.
«Terra!» gridò la vedetta dalla coffa.
«Terra!» fece eco l’equipaggio.
«Terra» sussurrò Cristoforo.
Finalmente c’era riuscito, aveva trovato le Indie. Dopo anni di indigenza e povertà, di suppliche alla corte e favori a destra e a manca, era riuscito a scovare una rotta che congiungesse il mondo conosciuto. Sarebbe stato famoso. E ricco. Schifosamente ricco.
«Ci sono delle persone sulla spiaggia» urlò nuovamente la vedetta.
Persone, cioè indiani! O forse erano gli abitanti della mitica Cipango? Chiunque fossero, Cristoforo si mise in ghingheri per farsi accogliere degnamente e farsi portare alla corte del Re. Sbarcato con una decina di uomini, si avvicinò agli indigeni sorpresi e semi-nudi (sicuramente una moda delle indie, perché fa caldo oltre il Gange) e chiese loro pieno di speranza negli occhi:
«India?», puntando il dito verso il terreno.
L’uomo con la lancia in mano lo guardò interdetto e poi, puntando anche lui l’indice verso terra e scuotendo l’altro davanti al genovese, rispose:
«America».
Cadde il silenzio fra gli uomini: America? Che cos’era l’America? Considerando che questo nome non esisteva ancora, sarebbe stato un bel mistero anche per noi. Sta di fatto che Cristoforo ci rimase secco. Niente fama, niente ricchezze!
«Eh Capo…» intervenne dubbioso uno della ciurma dietro di lui mettendogli una mano sulla spalla «te l’avevo detto che Geografia Umanistica toccava darlo prima di partire!»
Maledetti siano gli Alisei! Imprecò fra sé Cristoforo Colombo, scopritore dell’America.