Torna all'Indice

Il paradosso di Tiberio

Tiberio, pezzo di Imperatore, era uomo di poche parole. Riservato all'inverosimile, viene ricordato dagli antichi per la sua profonda capacità di dissimulazione; era un grande attore capace di indossare numerose maschere, dal silenzio alla perfidia. Tutto, pur di nascondere i suoi piani. Lo storico Tacito, che per non si sa quale motivo ce l'aveva a morte col suddetto, ci regala uno spaccato di vita del Cesare nel VI degli Annales. Parafrasiamo qui il testo per il gusto del lettore.

Roma non ha mai amato i maghi. Gli stregone caldei, Signoroni di Scienza Astrologica e Divinatoria, venivano invitati cortesemente ad alzare i tacchi. Ma a Tiberio non importava nulla: lui era l'imperatore e faceva un po' come gli pareva: «Voglio il mio mago di corte, che non si sa mai cosa mi combinano i senatori!», sbraitava dal suo lettuccio a Capri, dove stava bello spaparanzato mentre a Roma regnava incontrastata la legge del carnefice e si facevano i tuffi nel rosso Tevere.
Fece così convocare un bel gruppo assortito di divinatori egizi, incantatori tessali e astrologi arabi, la crème de la crème in fatto di tarocchi e budella di capra. Ma il nostro Augusto non voleva sciocchi perditempo e truffatori al suo fianco. Decise dunque di metterli alla prova. Questo il suo piano astuto. Ogni astrologo sarebbe stato accompagnato da un servo, stupido ma oltremodo muscoloso, dalla sua villa fino a luoghi scoscesi e impervi dell'Isola di Capri, magari qualche bel Faraglione. Lì, alla presenza di Tiberio, l'incantatore avrebbe eseguito le sue pratiche divinatorie per predire il futuro all'imperatore. Ma al primo segno di incapacità del mago Tiberio l'avrebbe fatto scagliare giù dal dirupo dal servo, stupido ma muscoloso (che chiameremo, per economia del lettore, Maciste).
Giunse il primo, un arabo tutto ingioiellato e decorato come un'ara pergamena. L'Imperatore non fece in tempo a parlare che questi proruppe:
«Eccomi qui, Vostra Eccellenza Illustrissima, Cesare dei Cesari, Augusto degli Augusti, Imperatore degli Imperatori, Primo Astro della Notte, (era il saluto ufficiale della corte di Roma)» e poi aggiunse: «Cosa devo fare?».
«Ah, iniziamo bene, proprio bene!» rispose l'Augusto Imperatore. Bel divinatore se non sapeva nemmeno che avrebbe dovuto divinare! Giustiziato senza nemmeno l'aiuto di Maciste, che stava lì fermo e non comprendeva ancora l'entità omicida del suo compito.
Arrivò il secondo, un greco abbronzato che profumava di essenze tremendamente dolciastre. Tiberio non perse altro tempo e lo condusse insieme a Maciste al picco scosceso, anche perché con una fragranza del genere in luogo chiuso non sarebbero durati più di cinque minuti.
«Certo che qui è bello alto» disse il nauseabondo acheo mentre camminavano.
«Eh! Sapesse!» rispose l'Augustissimo.
Una volta arrivati, il Sommo fece una domanda facile facile all'odoroso.
«Qual è il mio colore preferito?»
L'aromatico augure non si perse d'animo e iniziò a consultare il volo degli uccelli, prassi antica e prestigiosa. Querquedula da sinistra, merlo da ponente, pernice di levante che sgambettava sul pianoro, un airone a pelo d'acqua (a Capri?) e anche una vespa variopinta che volava a zig zag sopra il naso degli astanti, con Maciste che tentava ingenuamente di schiacciarla fra le mani. Giunse il tempo del responso; alzate le mani al cielo, il vate esclamò:
«Il Vostro colore preferito Vostra Eccellenza Illustrissima, Cesare dei Cesari (etc. etc.) è certamente il blu».
Ma come? Eppure lo sapevano tutti che il colore preferito del Cesarissimo era il rosso. Rosso sangue Seiano, a voler essere precisi. E via, in men che non si dica Maciste scagliò il maleodorante truffatore giù dalla scogliera.
Il terzo prometteva meglio. Era un divinatore delle Terre del Nord, un omaccione peloso dalla barba incolta e gli occhi selvaggi. Era un grande sacerdote nella sua tribù, esperto nella lettura delle interiora di capra, specialità rara in quei tempi poco civilizzati. Stessa strada, stesso picco. Questa volta la domanda del nostro dissimulator fu un poco più difficile:
«Dimmi, mago, vincerò la guerra contro i Parti? (i Parti erano gente tosta dell'est)».
Il nerboruto nordista si mise subito all'opera: sfoderato dalla sacca un capretto ucciso di fresco, lo squarciò con un coltello dipinto e iniziò ad estrarne le budella, proferendo parole astruse e profonde in lingue sconosciute. Lo spettacolo era raccapricciante: pezzi di fegato maciullati e gettati in aria, bile che sgorgava nera nel terreno, il cuore che rotolava fino ai piedi di Maciste, che era sì ignorante e muscoloso, ma era pure debole di stomaco e per poco non rimise sulla toga imperiale.
«Contegno Maciste, che sennò butto pure te dalla scogliera» bisbigliò Tiberio. Alla fine, il peloso aruspice settentrionale non aveva dubbi; con voce afflitta ma possente alzò al cielo le mani e annunciò:
«Purtroppo, Vostra Eccellenza etc. etc., la guerra verrà vinta dai Parti».
Ma come? Eppure lo sapevano tutti che Tiberio, Sua Eccellenza Illustrissima Cesare dei Cesari etc. etc. non perdeva mai nessuna guerra. Via, anche questo giustiziato da Maciste, che subito dopo diede di stomaco.
Il quarto, un mago dall'Etruria, un folgoratore, specializzato nella lettura di fulmini.
«E in una giornata di sole così bella come fai?» domandò il Tiberissimo.
«Ehm, sarà meglio che me ne vada» e fece per imboccare il sentiero del ritorno.
«Aspetta, c'è la strada più breve: Maciste…».
Una tragedia: tutti truffatori o cialtroni, nessuno ne azzeccava mezza. Tiberio era disperato, come avrebbe fatto senza astrologo? Fino a quel momento si era sempre accontentato di ammazzare tutti i presunti colpevoli inviando lettere a Roma, dove col cavolo che sarebbe tornato, lì c'era sua madre che non lo faceva uscire la sera (perché puoi essere Cesare quanto vuoi, ma la mamma è sempre la mamma). Ma non si poteva continuare così, il Senato stava diventando una replica del Tito Andronico.
Ormai non era rimasto che un uomo. Costui faceva di nome Trasillo e veniva da Alessandria d'Egitto, dove aveva studiato Astrologia Comparata presso l'Accademia Alessandro (Magno) II. Trasillo era rimasto da solo nella sala d'aspetto del palazzo di Capri, con la borsa degli strumenti sulle gambe, a leggere Diva e Domna, ma presto capì che c'era qualcosa che non andava, per due motivi: primo, ogni volta che un mago saliva poi non tornava più; secondo, a intervalli di venti minuti circa sentiva tirare un gran urlo. La cosa gli puzzava, e non solo per colpa dell'odoroso divinatore greco da poco passato.
Infine fu chiamato e condotto in cima. Tiberio era stanco e irato, quasi incazzato, e per di più quest'ultimo mago non gli stava a pelle per niente simpatico, forse perché Trasillo era alto con i capelli fulvi mentre il Cesarissimo era tutto pelato e dinoccolato. Tiberio giocò sporco:
«Astrologo, dimmi: quale sarà l'oroscopo per la tua giornata?».
Trasillo rimase lì per lì sorpreso. Non avrebbe mai pensato di dover prevedere il proprio, di futuro. Ma gli ordini di Tiberio non si discutevano. Prese i suo strumenti dalla borsa a tracolla e iniziò a misurare l'aria, a dividere i settori del cielo e a calcolare gli spazi siderali. Alla fine, dopo un attento calcolo da cui era risultato che avrebbe vinto al Superenalottus la sera stessa, Trasillo fu pronto a dare la risposta all'Imperatore. Se non che, girandosi per consegnare il positivo responso, la vespa variopinta che era costata la vita al primo divinatore gli entrò nella veste, iniziando a pungerlo. Trasillo trasaltò in un grido di dolore e cominciò a saltellare da una parte all'altra per cercare di far uscire l'esuberante insetto. Ma Tiberio, ignaro della cosa, alla vista della disperazione sul volto del mago, esclamò con aria esultante:
«Costui ha intuito tutto! Non vedi come si dispera, Maciste? Conosceva già la fine che gli avrei fatto fare e per questo urla dal dolore. Egli è un vero divinatore, sia fatto mio astrologo di corte subito!»
Trasillo, liberatosi del pungente salvatore, vide bene di tacere e accettò con molto entusiasmo l'incarico. Da quel momento avrebbe servito fedelmente l'imperatore predicendogli una lunga vita (e sappiamo tutti com'è finita).

Questo ci narra Tacito negli Annales, ma egli è dimentico di un piccolo particolare, noto solo a qualche adepto e tramandato dalla tradizione per vie traverse e perverse:

Qualche anno dopo Maciste, mentre stava innaffiando le piante a Capri canticchiando "Biga Race" degli Imperator, venne colto da un'intuizione. Corse trafelato da Tiberio, urlando:
«Vostra Eccellenza Illustrissima etc. etc. devo dirvi una cosa che riguarda Trasillo!».
«Parla Maciste, cosa c'è di tanto sconvolgente da farmi tremare la villa?».
Con aria ispirata (dagli dei? Dalle vespe? Non lo sapremo mai) Maciste esclamò: «Vedete, Trasillo quel giorno predisse, secondo voi, che sarebbe morto buttato giù dalla rupe, ma egli non è stato poi ucciso e quindi il suo oracolo non si è avverato. Dunque egli ha sbagliato. D'altronde se avesse risposto che si sarebbe salvato lei lo avrebbe buttato giù dalla rupe e quindi avrebbe errato comunque! È un paradosso, non c'è via di scampo!»
Tiberio, che aveva capito di non aver capito, non potendo mostrare di non aver capito, rispose con aria di noncuranza (ah, la dissimulazione!):
«Lo sapevo, Maciste, lo sapevo. Ma ho voluto graziarlo, perché sono un bravo imperatore. Ora torna ad innaffiare il busto di Augusto in giardino». Maciste se ne andò meno convinto di prima. Tiberio, rimasto solo, rimuginò sulle sue parole. Aveva dunque a corte un mago che non sapeva divinare? Erano vere le parole dell'ignorante ma muscoloso uomo dallo stomaco leggero? E poi, cos'era un paradosso? Nel dubbio, chiamò il nunzio imperiale.
«Ai vostri ordini, Vostra Eccellenza eccetera eccetera… intendete spedire una missiva imperiale?» chiese il messaggero.
«Sì» rispose Tiberio cupo in volto «al Senato; ma prima: quali sono le condanne in programma per oggi a Roma?».

Era nato il paradosso di Tiberio.