"s'impasta l'argilla per fare un vaso
e nel suo non-essere si ha l'utilità del vaso"
— Tao Te Ching"
Quando iniziai il mio primissimo laboratorio teatrale, in una sperduta auletta piena di sedie al secondo piano di una scuola, il primo incontro che feci fu con il "rilassamento". Ricordo, ci fecero stendere, ignari, sul pavimento polveroso e freddo; le gambe distese e le braccia libere; i muscoli dovevano essere rilassati, i nervi sciolti. Ci fecero chiudere gli occhi e tirare un respiro profondo. "Seguite la mia voce", disse il Maestro.
Subito iniziò un viaggio astrale guidato che mi parve roba da Yoga frammista a pseudo-new age di bassa lega: "Respirate profondamente…", "Immaginate che il respiro cambi colore…", "Voi siete un albero che mette radici…", sono solo alcuni frammenti di frasi che non scorderò mai. Quando poi ci dissero che quella fase laboratoriale, chiamata per l'appunto "rilassamento", in altri contesti poteva durare anche due ore, pensai d'essere finito in una gabbia di pazzi. Cosa c'azzeccava questo con il teatro? Erano tutti matti? Forse era meglio andare a casa per non tornare più.
Tornai. Perché in fondo mi era piaciuto. Se è vero che nell'universo esistono dei punti fissi, questo è uno di quelli. Negli anni imparai ad apprezzare (e capire) tutti i momenti che la vita del discente teatrale percorre: studi di camminate, analisi dello spazio, del ritmo, lavoro sulla maschera, ortoepia, lettura espressiva, lavoro sull'energia… chi più ne ha, più ne metta! Mille esercizi che negli anni sono sempre cambiati, sempre nuovi e mai gli stessi. Ma quel primo rilassamento, quella fase iniziale di tutti i laboratori, cambiando i volti e le circostanze, non se ne sarebbe mai andata. E ammetto, crux mea, di non averla mai capita del tutto.
Sono stato sempre una mente razionale, un logico nato: ammettere che il potere della voce, dell'immaginazione guidata e della respirazione potesse avere la meglio sulle nevrosi quotidiane mi parve sempre cosa da sciocchi. Ma in quella sciocchezza riconoscevo anche un certo fascino, perché dovevo ammettere che su altri funzionava perfettamente. Per anni ho brancolato nel buio, pensando di non poter arrivare ad afferrare quel concetto di "rilassamento". Mi riuscì un giorno di addormentarmi, e mi parve il miracolo: Ci sono? Cosa c'è di più tranquillo che il tepore del dormiveglia? È fatta. Così credetti per molto tempo; ma il tarlo del dubbio scavava ancora: il meccanismo non aveva gioco.
Ma ecco in un giorno uggioso un fulmine mi saettò nelle cervella. Stralci di letture pedagogico-teatrali, episodi della mia vita laboratoriale e intuizioni si fusero di colpo nel calderone della mia mente ed ebbi così la mia idrofobia!: un rilassamento non è un rilassamento. N'che senso, scusa? direbbe Verdone. Non è cuscino per dormire ma un ponte da attraversare. Il rilassamento non nasce con lo scopo di farti rilassare. Meglio. Il rilassamento non nasce con il solo scopo di farti rilassare: c'è altro. Da questo punto di vista, la parola "rilassamento", così tante volte ripetuta, è imprecisa.
Dobbiamo entrare nell'ottica che la qualità del tempo durante il quale si svolge la sessione di laboratorio è un tempo-altro rispetto a quello della vita quotidiana. È una bolla in cui "non troneggia ma siede" (avrebbe detto Camus) nostra Signora Lentezza. La lentezza è un concetto che la nostra vita, quella di tutti i giorni, ha perso. Siamo sempre di fretta, affannati nel corpo e nello spirito: non sappiamo più osservare né ascoltare ciò che ci circonda. Perché? Perché, oggi, quello che conta è la meta, non la strada percorsa. Ma a che pro percorrere il sentiero se abbiamo gli occhi puntati solo verso il traguardo, e ci dimentichiamo di ammirare la montagna?
Il teatro non ammette questa frenesia: dove va la mia intenzione? Ma non ci può essere vera intenzione se la mia attenzione è rivolta altrove. Come posso colpire il bersaglio se i miei nervi marciscono e io sono teso come la corda di un violino? Sono veramente pronto a lavorare su me stesso se il mio corpo e la mia mente non sono pronti a collaborare? Forse sono compromesso. Un po' come la storiella del monaco che continua a versare il thè nella tazza strabordante dell'allievo, intimandolo a svuotarsi di ciò che egli sa già per far spazio all'apprendimento. L'utilità di un vaso risiede nel suo essere vuoto per essere riempito. Nella storiella è una questione di preconcetto, qui è un fatto di nervi e tempo. Non possiamo agire in teatro se prima non viviamo il non-agire della frenesia e della fretta.
Ma come possiamo fare per dismettere le nostre ansie giornaliere, per quietare il nostro animo appassito di fronte alla furia del giorno? Ecco che in nostra salvezza interviene il "rilassamento"; suo compito è quello di farci distendere, nel corpo e nello spirito, per poterci svegliare in un tempo diverso, dove ansia e frenesia non sono più elementi che concorrono a bloccarci, ma forze da cui attingere in scena, rimodellate dal filtro della lentezza: è una questione di qualità dell'energia. Allora sarà tutto più vero, più chiaro, i confini saranno meglio tracciati e potremmo permetterci il lusso di giocare con loro. Altrimenti saremo sempre bloccati da forze esterne (il mondo) e interne (noi stessi) e non riusciremo mai a lavorare come si deve nel tempo del teatro.
Impariamo a fermarci per ripartire più forti. Inutile dire che questo dovrebbe valere in tutte le altre discipline, nella vita: dovunque. Dobbiamo trovare i nostri rilassamenti. Le nostre armi preferite sono il respiro, che è il nostro carburante e spesso ce ne dimentichiamo, e la nostra fantasia: che essa possa vagare guidata in quei momenti di "rilassamento", che possa perdersi ritrovandosi; che i nostri muscoli si possano addormentare per potersi risvegliare più forti, i nostri nervi più sereni, e noi con loro.
Il rilassamento è un ponte, perché ci porta dalla terraferma, in cui la gente "corre e dispera", verso un'isola in cui tutto è più nitido e lento: e da questa lentezza nascerà il vulcano del potere esplosivo che è la scena, che è il Teatro.