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Il paradosso dell'attore

Il neofito che si affaccia al mondo del teatro è portato fin da subito a pensare che l'arte della recitazione non debba essere altro che una mera trasposizione della vita su uno spazio di dieci metri quadrati, nel migliore dei casi. Ci sforziamo, o ci fanno sforzare ad essere quanto più naturali possibili, a coltivare una spontaneità (coltivare la spontaneità, si può?) che ci dicono che non possediamo: vogliamo essere veri e non verosimili. E quindi si fa strada nella nostra testa l'idea che, sì, in barba a tutto, l'arte della recitazione non è poi così artistica, quanto piuttosto "simile alla vita di tutti i giorni".

Da lì il passo, o salto, nel baratro del naturalismo coatto è molto breve: immaginiamo che la recitazione degli attori di teatro corrisponda (e non potrebbe essere altrimenti) a quella dei grandi attori di cinema, con le loro parvenze così realistiche davanti alla macchina da presa, iniziamo a leggere libri di metodi di autori lontani e importanti solo in chiave esasperatamente naturalistica, primo fra tutti lo stracitato e straconfuso Stanislavskij, che inizia ad essere, per noi, il paladino del teatro "della vita di tutti i giorni".

Iniziamo a pensare che ci sia una netta divisione fra la naturalezza e la tecnica, e che quest'ultima sia da rifuggire come la peste nera: se la verità deve essere tale, come potrebbe essere interposta una tecnica che blocca il nostro modo di emergere spontanei? È un paradosso, a che serve questa tecnica? Perché devo studiare qualcosa che mi riesce naturale? Ma una domanda fondamentale si fa strada nella nostra testa: perché il teatro viene definito così difficile se poi basta essere naturali? C'è qualcosa che non va. Ogni conoscenza che acquisiamo ci sembra inficiare la nostra verità di sentimento, il nostro angolo di verismo esasperato.

E allora ci danniamo, perché da una parte ci dicono di essere veri, dall'altra ci confermano che senza una buona tecnica vocale, per citarne una, non andiamo da nessuna parte. Tecnica o verità? Siamo persi, attraversiamo quella sottile fase in cui si mischiano generi e teatri, e tutte le parole di tutti i maestri ci paiono paradossi di incolmabile valore. Siamo certi di sbagliare ogni azione che facciamo sopra il palco.

Iniziamo a studiare questa misteriosa tecnica, tanto per capire un po' di cosa si tratti. Approdiamo alla Commedia dell'Arte dove ci dicono che non è necessario provare un sentimento e, che, volente o nolente, è un teatro di tecnica, e chiunque affermi il contrario è un bugiardo o un teologo folle; cerchiamo di capire gli insegnamenti di Barba con la sua pre-espressività e il suo extra-quotidiano, Mejerchol'd con la sua biomeccanica e compagnia cantante: insomma, tutti quelli che da lontano ci sembrano aver lasciato un po' di definizioni, sparse qua e là, e che quindi noi chiamiamo, erroneamente, "più tecnici di Stanislavskij" (ma siamo ancora ignoranti). Iniziamo a capire che il teatro non è solo un "facciamolo come se fossimo al bar". Magari ci capita anche di studiare canto, vedi mai. Se dobbiamo recitare diciamo a noi stessi: posso scegliere se andare in scena più naturale o farla più tecnica, domani invertirò. Ma non siamo contenti.

Passano ancora gli anni e ci sembra di non aver cavato molto dal buco scuro delle quinte. Allora ci sediamo, sconfitti, in riva al mare a cantare con i gabbiani, che in fondo ne sanno più di noi, e ripensiamo a tutto quello che abbiamo (dis)imparato: devo farlo naturale, con i sentimenti, o e meglio che usi la voce impostata. Stanislavskij e le emozioni di tutti i giorni oppure l'extra-quotidiano di Eugenio Barba. D'un tratto un gabbiano atterra vicino a noi e ci guarda, noi lo guardiamo: si guardano tutti. Poi vola via, e noi fermi lì come uno stoccafisso: ma qualcosa in noi si è attivato, forse complice il volatile biancastro. Ci frizzano in testa solo due parole: naturalezza, tecnica, nient'altro. Come se i nostri emisferi si unissero, ripetiamo in maniera spasmodica quelle due parole, le nostre uniche ancora di salvezza. E d'improvviso abbiamo la folgorazione!

Come folli corriamo alla biblioteca più vicina e prendiamo in mano "Il lavoro dell'attore su se stesso". Corriamo le pagine che ci sono più familiari e ci rendiamo conto di aver sbagliato tutto, nella lettura, nell'interpretazione. Mai una volta il nostro pedagogo russo ci parla di "fatela come se foste a casa", tutt'altro. Parla solo di verità delle emozioni. Allora tiriamo fuori dalla borsa "La canoa di carta" di Barba, oppure, se la borsa è molto capiente "L'arte segreta dell'attore" e, scorrendolo spasmodicamente, ci rendiamo conto che nemmeno Eugenio ci ha mai parlato di sola tecnica, che la sua pre-espressività non è un mero tecnicismo per ovviare i sentimenti.

Avevamo sbagliato. Tutto ora si apre davanti a noi con maggiore chiarezza e capiamo che: non esiste tecnica senza verità e verità senza tecnica. Entrambe sono teatro. Non esiste solo tecnica, perché essa da sola non potrebbe mai spiegare tutti gli intimi meccanismi della nostra mente, delle nostre emozioni: finiremmo solo per essere monotoni verso noi stessi nel portare avanti un sorriso falso, sempre, comunque, dovunque. D'altronde non si può nemmeno immaginare un naturalismo esasperato, una semplice e immediata trasposizione sul palco della vita di tutti i giorni. Capiamo che il teatro non è il cinema, che si può permettere questo puro e duro verismo che a noi è invece vietato. Anzi, riformuliamo: un teatro fatto in questa maniera non sarebbe nemmeno una trasposizione della vita, ma solo una sua copia fumosa, sbiadita. Tanto vale vivere realmente se sul palco dobbiamo solo fare quello che facciamo tutti i giorni. Che arte sarebbe il teatro, dove risiederebbe la sua creazione se fossimo costretti a essere solo noi stessi in tutti i modi possibili?

Arriviamo ad una conclusione, e questa volta siamo sicuri che ci vorrà molto tempo per smontare questa certezza, questo assioma che possiamo porre a base delle nostre conoscenze, future e pregresse: il teatro è un'arte, e come tale richiede che ci sia una creazione, non solo una copia della realtà; deve essere sviscerata per bene, compresa, cesellata, come un vaso greco, rifinita, come un Monet pregiato. Ma il teatro è un'arte speciale, perché per le sue creazioni impiega elementi viscerali del nostro essere, le nostre verità. Verità del gesto, del sentimento. Una verità che non può esistere senza un canale di trasmissione artistico, e per questo in un qualche modo artefatto, tecnico, studiato, fatto di qualche convenzione. La verità filtrata (e amplificata, solo ora lo capiamo!) dalla tecnica. La metafora migliore, ci salta in mente, è quella del pianista: senza tecnica andrebbe poco lontano, eppure senza sentimento sarebbe come tutti gli altri e diverrebbe un pigia tasti qualunque, un manichino meccanico.

E mai avresti potuto, da solo, saltare a piè pari a questa verità: hai dovuto studiare, errare, capire e sbagliare di nuovo, perché se ti avessero servito un pesce bello grigliato tu non avresti mai imparato a pescare (che metafora poetica, dici a bassa voce al gabbiano!). E ora tutto a senso: gli studi sulla voce, sulle azioni fisiche, i "se" e le "circostanze date" del buon Stanislavskij, l'azione-reazione di Barba, la biomeccanica di Mejerchol'd. Anche noi siamo diventati artisti, come i pittori, come gli scultori, come i pianisti. Ci batteremo per portare il vero del mondo nello spazio vuoto del teatro, ma questa volta, ne siamo certi, non ci scorderemo di provare a casa le cadenze e il solfeggio.