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Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio

Parte 1/2

Premessa sincera: tutti noi ammettiamo con grande convinzione ed estremo orgoglio di non credere nemmeno lontanamente a tutto ciò che riguarda il soprannaturale spiccio: perché siamo certamente emancipati da certe usanze antiche e scaramantiche da contadini di campagna, ma non possiamo fare a meno di rispondere “crepi” quando un nostro amico ci augura in bocca al lupo: guai a dire “grazie”, porterebbe sfortuna.

Ma non avevi detto di non crederci?

Sì, ma non si sa mai...

Il mondo delle superstizioni rimane sempre e comunque qualcosa di estremamente affascinante, non solo perché “non si sa mai”, ma anche perché tutta quella serie di credenze ha radici talmente antiche e dimenticate nel tempo che facciamo fatica a capire per quale motivo oggi facciamo un tale gesto o diamo una determinata risposta. È la dinamica del rito, un susseguirsi di azioni prestabilite che un significato ce l’hanno realmente; solo che noi ormai lo ignoriamo: molte superstizioni sono riti apotropaici svuotati e corrosi del loro significato, la cui forma ha ormai vinto sulla sostanza.

Dopo questa breve lezioni di antropologia improvvisata, passiamo al succo di queste righe: tutti gli ambiti possiedono i loro piccoli riti, e il teatro non si tira certo indietro davanti ad una occasione così ghiotta. Se un attore dovesse rispettare tutti le scaramanzie teatrali certo avrebbe poco tempo per preparare lo spettacolo.

Anzi, in teatro ci dovrebbe entrare nudo, o almeno, sempre in abiti neri. Perché sulla scena e in platea sono proibiti un numero di colori che rasenta la follia cromatica: in Italia, si sa, è bene non recarsi ad assistere ad una rappresentazione vestiti di viola; storia vuole che tale colore sia associato ai paramenti liturgici adoperati dai sacerdoti durante la Quaresima, momento dell’anno particolarmente gramo per gli attori: essendo periodo penitenziale la Chiesa proibiva, nel Medioevo, qualsiasi tipo di rappresentazione, con conseguente morte di inedia dei poveri teatranti.

Non se la passano meglio i francesi: guai vestire di verde! Il colore è associato alla morte del grande commediografo e drammaturgo Moliere, che leggenda vuole abbia tirato il calzino poco dopo la fine della rappresentazione del “Malato immaginario”, quando vestiva proprio di questo colore. Per altri il verdere era portatore di mala sorte perché, durante il XIX, le luci nei teatri francesi non riuscivano a mettere in risalto il colore, che risultava così sbiadito al pubblico.

Lontani dal giallo in Spagna. Il mantello con cui il toreador scende nella corrida è di colore viola all’interno e giallo all’esterno: casomai venisse incornato (ahi ahi ahi!) e ucciso, l’ultimo colore che indosserebbe sarebbe proprio il giallo.

Nuovo paese, nuovo regalo. Nessuno vesta di blu in Inghilterra. La tintura che permette la colorazione degli abiti in blu si otteneva, prima della sintesi chimica dei colori, da una combinazione di olio di lino e polvere di lapislazzulo, elementi che rendevano tale colore il più costoso da produrre. Se una compagnia si fosse dotata di abiti blu in scena sarebbe rimasta probabilmente a mani vuote. Da qui, questo colore è stato associato alla povertà dell’attore. Ma gli inglesi ci offrono una via d’uscita: se la compagnia era abbastanza ricca da potersi permettere anche degli elementi in argento da applicare ai vestiti, allora era abbastanza prospera anche per poter comprare abiti blu senza far cadere i suoi conti in rosso (che brutto gioco di parole!).

Dunque, se volete andare a teatro, abbiate la decenza di sbarazzarvi di metà del vostro guardaroba. Ma le superstizioni non finiscono qui. Conoscete la tragedia delle streghe di Shakespeare, altrimenti nota come (sospiro di paura…) Macbeth (l’ho detto!)? Una fra le più famose scaramanzie teatrali associa il nome di questa tragedia alla sfortuna più nera; guai a pronunciarlo in un teatro: cose terribili e oscure accadrebbero all’attore che ne proferisce il nome, a meno che non vogliate uccidere il grande Sir Ian McKellen. Meglio dire il "Dramma scozzese", il "Dramma delle streghe" o "del Bardo".

Cosa dire dunque ad un attore che sta per andare in scena? Tanti auguri? No, mai. Porta sfortuna. In bocca al lupo? Per carità! Le opzioni sono due: stare zitti e dare una bella pacca sulla spalla, oppure augurare all’attore di… rompersi una gamba! L’espressione viene dall’inglese “break a leg” e nella nostra Italia è poco usata. È, come “in bocca al lupo”, una antifrasi, ovvero una frase che assume un significato opposto a quello dichiarato. Come a dire: ti auguro il peggio perché ti venga concesso il meglio. Ci sono molte possibili derivazioni per il modo di dire inglese: “to break a leg” vuol dire, per esempio, anche inchinarsi, cosa che un attore fa solo se il pubblico applaude alla fine dello spettacolo, segno questo che la performance è stata apprezzata.

Altri intendono “leg” come linea del palco (chiamata in inglese “the Leg Line”) che poteva essere attraversata solo da chi era stato pagato per esibirsi. Quindi dire ad un attore di rompersi una gamba equivaleva ad augurargli di esibirsi presto ed essere dunque pagato. Altri ancora vedono questa espressione provenire dal teatro antico. In Grecia infatti, alla fine della rappresentazione, il pubblico non applaudiva, ma sbatteva i piedi per terra, cosa che poteva comportare la rottura delle gambe e che indicava che lo spettacolo era andato bene. Ma potrebbe avere una derivazione simile dal teatro inglese di età elisabettiana, dove il pubblico, al successo dello spettacolo, sbatteva per terra le sedie con possibile rottura delle gambe (della sedia). Quest’ultime sono motivazioni un po’ più deboli, ma non si sa mai.

Le teorie su questa scaramanzia non sono certo finite qui. Ma dato che il teatro (specialmente inglese) è stato considerato come uno degli ambiti dove più regna la superstizione (sul serio, lo ha detto un pezzo grosso nel 1921), sarà meglio guardare oltre(oceano).

Nel teatro australiano è d'uso l'espressione "chookas!" per augurare la buona fortuna ad un attore. Il significato della frase è il seguente: agli inizi del 1900 il pollo era considerato una prelibatezza oltremodo costosa. Dunque se la compagnia avesse potuto pagare un bel piatto di pollo ad ogni componente della brigata, avrebbe voluto dire che lo spettacolo era andato bene. Nello slang australiano derivato dall'inglese il termine pollo si può dire anche "chook": era dunque abitudine augurare alle compagnie la frase "chook it is", poi contratta in "chookas".

Nel teatro italiano si usa raramente l’espressione “break a leg”; viriamo (e non solo noi!) un poco più sul cacofonico, nel verso senso del termine: si è soliti augurare un sonoro “Merda!” all’attore che sta per andare in scena. Questa volta però la spiegazione è semplice. Nel XVII secolo era uso recarsi a teatro (chi poteva permetterselo) in carrozza, trainata da equini pasciuti. Tanto pubblico, tante carrozze, tante carrozze voleva dire tanti equini parcheggiati, tanti cavalli… tanta merda; da qui l’equazione equina: tanta merda = tanto pubblico.

Quindi adesso sapete cosa dire ad un attore e soprattutto… cosa non dire!